Capita spesso che la realtà ci si scompagini tra le mani, si sfilacci come un panno consunto, a meno che questa realtà non diventi una sorta di attivatore anaforico, una ripresa estemporanea o meglio, un bias cognitivo e allora, come successe venti anni fa con il mio romanzo d’esordio, Pater familias, la voglia di trasfonderla nella pagina diventa più forte di tutto, della realtà stessa e dell’invenzione.

L’autore Massimo Cacciapuoti presenta il Pregio della coscienza.

E come venti anni fa la realtà investita è esattamente la mia, quella che riconosco (più che conosco), Giugliano, il mio paese d’origine, e dietro si avverte lo sforzo di ripercorrerla, di attraversarla in lungo e in largo anche nel non vissuto nel vissuto parziale, il romanzo parte esattamente da qui, dal tempo: nel Pregio della coscienza il riferimento temporale è abbastanza preciso, il post terremoto, quindi i primi anni ottanta, ma nella pagina si avverte ovunque, per chi conosce quella realtà, un periodo antecedente, il decennio settanta-ottanta, che questioni meramente anagrafiche non posso che ripercorrere per sentito dire, per analogia, per anafora, appunto.

Il romanzo voleva essere un giallo, ma categoricamente è più opportuno collocarlo nella sfera noir, racconta di un omicidio e di un capitano del carabinieri che lo assolve, solo che in questo giallo la realtà irrompe con prepotenza, sottoforma di luoghi, persone, contesti più che reali, veri. Mi piaceva inventare fatti, farli accadere a persone realmente esistite, alcune sono ancora in vita. Lo stesso Donna Ceccia, morto per mano di un assassino, è esistito realmente, solo che non c’entra niente con la morte violenta della fiction.

Insomma è venuto fuori una sorta di pastiche, un misto indistinguibile di realtà e finzione in cui tutto diventa carne, sostanza, riflesso del vero. Anche il capitano Monaco l’ho ripreso dalla realtà associandolo al Maggiore De Lise, o ad altri carabinieri di grido che hanno insistito sul territorio, penso a Luigi Cortellessa, ad esempio, quasi come uno scherzo del destino, Giugliano terra di camorra ha visto insistere sul territorio alcuni rappresenti dello stato di grandissimo spessore umano e professionale.

Anche il linguaggio subisce lo stesso processo. E quando parlano i giuglianesi veri parlano il giuglianese vero, con accenti, forme, parole che sono tipiche, uniche, appartengono alla comunità e solo a essa, in difesa della tipica diglossia italiana. Una difesa, strenua, anche in questo caso del senso identitario, che forse anche effetto del bias cognitivo di cui sopra, non riconosco più e non trovo più nemmeno nelle generazioni che per loro stessa natura dovrebbero serbare le tracce della memoria. Il fondo è questo lo scopo cui dovrebbe assolvere la natura, ricreare la realtà, modificandola, riportandola in vita quando si smarrisce il suo segno, diventare metacognizione di se stessi e del proprio mondo.

Massimo Cacciapuoti